Avevano superato l'orbita di Giove in un punto a trenta gradi dalla sua posizione. Per mesi era stato l'oggetto più luminoso nel cielo, sempre con l'eccezione del bianco pisello ardente che era il Sole. Alcuni degli avvoltoi affermavano che, quand'era al massimo della luminosità, riuscivano a distinguere Giove come una piccola sfera, con un lato schiacciato e deformato dall'ombra della notte.

Poi, durante il successivo periodo di molti mesi, era lentamente sfumato, mentre un altro punto luminoso cresceva fino a diventare più luminoso di Giove. Era Saturno, prima un punto brillante nel cielo, poi una macchia ovale, ardente.

(«Perché ovale?» chiese qualcuno, e dopo un po' qualcun altro spiegò: «Gli anelli, naturalmente», e fu ovvio).

Verso la fine del viaggio ognuno di loro andava a galleggiare tutte le volte che era possibile, osservando incessantemente Saturno.

(«Ehi, imbecille! Torna dentro, dannazione! È il mio turno». «Il turno di chi? Stando al mio orologio, ho ancora quindici minuti». «Hai messo indietro l'orologio. Inoltre ti avevo già dato venti minuti più di ieri». «Tu non daresti due minuti neppure a tua nonna». «Torna dentro, dannazione. Altrimenti io esco lo stesso». «Va bene, vengo. Santi strafalcioni, quante storie per uno schifosissimo minuto». Ma nessun litigio poteva essere una cosa seria. Non nello spazio. Si stava troppo bene).

Saturno ingrandì, fino a rivaleggiare e poi a superare il Sole. Gli anelli, disposti ad angolo ottuso rispetto alla loro traiettoria di avvicinamento, si stendevano grandiosi intorno al pianeta, soltanto una piccolissima porzione era eclissata. Poi, mentite si avvicinavano, l'apertura degli anelli divenne ancora più ampia, anche se l'angolo di visuale si restringeva man mano che si abbassavano verso l'equatore.

Le lune più grandi comparvero nel cielo circostante, come grandi, immote lucciole.

Mario Rioz fu lieto di essere sveglio, così da poter contemplare una volta ancora quello spettacolo.

Saturno, striato di arancione, riempiva una buona metà del cielo. L'ombra della notte lo ricopriva, partendo da un confine indistinto, sulla destra, per un quarto della distanza. I due piccoli punti rotondi proiettati sulla superficie in luce erano le ombre di due lune. Sulla sinistra, dietro di lui (poteva guardare dietro la propria spalla sinistra, e quando girò la testa, il resto del suo corpo ruotò leggermente a destra per conservare la quantità di moto angolare) c'era la candida, sfavillante gemma del Sole.

Ma a Rioz piaceva soprattutto contemplare gli anelli. Emergevano sulla sinistra da dietro Saturno in una tripla fascia luminosa, stretta e risplendente d'una luce arancione. Sulla destra, il punto in cui spuntavano era nascosto dall'ombra della notte, ma apparivano sempre più vicini e più larghi. A mano a mano che si avvicinavano, si ampliavano come la svasatura d'un corno, diventando sempre più nebulosi, finché, mentre l'occhio li seguiva, parvero riempire tutto il cielo, e lo sguardo vi si smarriva.

Quando la flotta degli avvoltoi era penetrata subito all'interno del bordo più esterno degli anelli, questi si erano scomposti assumendo la loro vera identità: uno sterminato, incredibile ammasso di frammenti solidi invece della fascia di luce compatta che erano sembrati.

Sotto di lui, o meglio nella direzione verso la quale erano puntati i suoi piedi, a circa venti miglia di distanza, c'era uno dei frammenti dell'anello. Pareva una grande chiazza irregolare, guastando la simmetria dello spazio, per tre quarti luminoso, e l'ombra della notte che lo tagliava come un coltello.

Altri frammenti erano più lontani. Luccicavano come polvere di stelle, più fiochi e sempre più fitti, finché, seguendoli con lo sguardo, diventavano di nuovo anelli continui.

I frammenti erano immobili, ma ciò era dovuto soltanto al fatto che la nave aveva assunto un'orbita intorno a Saturno equivalente a quella del bordo più esterno degli anelli.

Il giorno prima, pensò Rioz, lui era stato sul più vicino frammento, a lavorare insieme ad una ventina di altri a modellarlo nella forma desiderata. Domani ci avrebbe lavorato di nuovo.

Oggi... oggi galleggiava nello spazio.

«Mario?» La voce che irruppe nei suoi auricolari suonò interrogativa.

Per un attimo, Rioz si sentì invadere da una sensazione di fastidio. Dannazione, non aveva nessuna voglia di compagnia.

«Sono all'apparecchio» rispose.

«Mi pareva di aver visto la tua nave. Come stai?»

«Bene. Sei tu, Ted?»

«Proprio io» disse Long.

«Qualcosa non va con il frammento?»

«No. Sto galleggiando qua fuori».

«Tu?»

«Prende anche me la voglia, di tanto in tanto. Bello, vero?»

«Splendido» fu d'accordo Rioz.

«Sai, ho letto i libri della Terra...»

«Dei terraioli, vuoi dire». Rioz sbadigliò e trovò difficile, viste le circostanze, usare l'espressione con la giusta dose di risentimento.

«... e a volte ho letto la descrizione di persone distese sull'erba» continuò Long. «Sai, quella roba verde come lunghe e sottili strisce di carta che laggiù hanno dappertutto sul terreno, e guardano il cielo azzurro con le nuvole sopra di loro. Li hai mai visti nei film?»

«Sicuro. Ma non mi hanno attirato granché. Mi è parso che dovessero avere un gran freddo».

«Ma non credo che sia davvero così. Dopotutto la Terra è piuttosto vicina al Sole, e dicono che la loro atmosfera sia abbastanza densa da trattenere il calore. Devo ammettere che personalmente detesterei l'idea di trovarmi esposto sotto un cielo aperto con nient'altro addosso oltre ai vestiti. Comunque, immagino che a loro piaccia».

«I terraioli sono matti!»

«Parlano anche degli alberi, grossi steli marrone, e dei venti, i movimenti dell'aria, sai».

«Vuoi dire le correnti d'aria. Ma possono tenersi anche quelle!»

«Non ha importanza. Il punto è che loro ne fanno una descrizione meravigliosa, quasi appassionata. Molte volte mi sono chiesto: "Come sarà veramente? Proverò mai sensazioni del genere, oppure è qualcosa che soltanto i terrestri riescono a sentire?" Tante volte ho avuto l'impressione che mi mancasse qualcosa di vitale. Adesso so come deve essere. È quello che proviamo adesso. La pace totale in mezzo ad un universo impregnato di bellezza».

Rioz replicò: «A loro non piacerebbe. Ai terraioli, voglio dire. Sono talmente abituati al loro piccolo mondo schifoso che non capirebbero mai cosa voglia dire galleggiare nello spazio e guardare Saturno dall'alto». Scosse lievemente il proprio corpo e cominciò a ondeggiare avanti e indietro intorno al centro della sua massa, lentamente, deliziosamente.

Long replicò: «Sì, penso anch'io la stessa cosa. Sono schiavi del loro pianeta. Anche se verranno su Marte, saranno soltanto i loro figli ad esser liberi. Un giorno ci saranno navi interstellari, immense astronavi che trasporteranno migliaia di persone e manterranno il loro ciclo vitale, all'interno, per decenni, forse per secoli, in completa autonomia. L'umanità si diffonderà per tutta la Galassia. Ma gli individui dovranno passare l'intera vita a bordo delle navi, fino a quando nuovi sistemi di volo interstellare non verranno sviluppati, così saranno i marziani, non i terrestri legati, confinati sul loro pianeta, a colonizzare l'universo. È inevitabile. Dovrà essere così. È la via marziana».

Ma Rioz non rispose. Era nuovamente piombato nel sonno e oscillava lievemente mezzo milione di miglia sopra Saturno.

 

VII

 

Il turno di lavoro sul frammento dell'anello era l'altra faccia della moneta. La mancanza di peso, la pace e l'intimità dello spazio, lasciavano il posto a qualcosa che non aveva né pace né intimità. Perfino la mancanza di peso, che continuava, diventava più un purgatorio che un paradiso, in quelle nuove condizioni.

Cercate di maneggiare un proiettore termico, non fatto per essere portatile. Sì, era possibile sollevarlo, malgrado il fatto che fosse alto più di un metro e ottanta e largo altrettanto, e fosse quasi tutto di metallo compatto, dal momento che, qui, pesava soltanto pochi grammi. Ma la sua inerzia era quello che era sempre stata, il che significava che, se non fosse stato posto in posizione molto lentamente, avrebbe proseguito la sua corsa, trascinandovi con sé. Allora avreste dovuto attivare la pseudogravità della vostra tuta e cader giù con uno strattone.

Keralski aveva dato troppa intensità al campo, ed era venuto giù troppo bruscamente, con il proiettore che l'aveva seguito nello stesso modo. La sua caviglia schiacciata aveva fatto di lui la prima vittima della spedizione.

Rioz stava imprecando con estrema facilità, e senza fermarsi. Gli veniva in continuazione l'impulso di passarsi il dorso della mano sulla fronte per asciugarsi il sudore accumulato. Le poche volte che aveva ceduto a quell'impulso, il metallo aveva incontrato il silicone con uno schianto che era echeggiato con violenza all'interno della sua tuta, ma senza ricavarne niente di utile. Gli essiccatori all'interno della tuta stavano succhiando via il liquido al massimo ritmo, e naturalmente recuperavano l'acqua, ripristinando il suo equilibrio ionico, con una proporzione accuratamente dosata di sali, nel ricettacolo all'uopo progettato.

Rioz gridò: «Dannazione, Dick, aspetta fino a quando non te lo dirò io, per favore».

E la voce di Swenson risuonò nelle sue orecchie: «Insomma, quanto tempo devo restarmene inchiodato qui?»

«Fino a quando non te lo dirò io» rispose Rioz.

Intensificò la pseudogravità e alzò un poco il proiettore. Poi rilasciò la pseudogravità, assicurandosi che il proiettore rimanesse fisso al suo posto per qualche minuto anche se privo di sostegno. Scostò con un calcio il cavo che l'impicciava (si stendeva fin oltre l'«orizzonte» vicino per collegarsi ad una fonte di energia che era fuori della loro visuale) e schiacciò il grilletto.

Il materiale di cui era composto il frammento ribollì e si dissolse sotto il tocco del raggio termico. Una sezione dell'orlo dell'enorme cavità già scavata in profondità nel frammento scomparve, e il profilo si fece così più liscio e regolare.

«Prova adesso» gli gridò Rioz.

Swenson si trovava nella nave sospesa quasi sopra la testa di Rioz. Chiamò: «Tutto a posto?»

«Ti ho detto di procedere».

Fu un debole guizzo di vapore quello che scaturì da uno degli ugelli anteriori della nave. La nave discese verso il frammento. Un guizzo scaturito dalla parte posteriore la fece rallentare alla velocità di una piuma.

Rioz seguì la manovra in preda alla tensione. «Continua a farla scendere. Ce la fai. Ce la fai...»

La parte posteriore della nave entrò nella cavità, riempiendola quasi del tutto. Le pareti ricurve si avvicinarono sempre più al suo orlo.

Vi fu una vibrazione stridente, e il movimento della nave si arrestò.

Stavolta toccò a Swenson imprecare. «Non entra!» esclamò.

Rioz scagliò il proiettore verso il basso in un impeto di collera, e schizzò nello spazio sbattendo le braccia. Il proiettore sollevò tutt'intorno una candida nuvola cristallina, e quando Rioz ridiscese sotto l'effetto della pseudogravità, fece lo stesso.

Gridò: «Sei entrato di sbieco, terraiolo rincretinito che non sei altro!»

«Ci sono entrato giusto in verticale, bifolco mangiaterra!»

I getti obliqui posteriori della nave schizzarono con maggior potenza, e Rioz balzò via per togliersi di mezzo.

La nave uscì dal pozzo raschiandone i bordi, poi balzò nello spazio a una distanza di mezzo miglio prima che i getti anteriori riuscissero ad arrestarla.

Swenson disse, in preda alla tensione: «Sfonderemo una mezza dozzina di piastre, se dovessimo rifarlo. Cerca di dirmi giusto, eh?»

«Ti dirò giusto, non preoccuparti. Sei tu che devi venirci giusto».

Rioz balzò in alto e si lasciò salire di un centinaio di metri per dare un'occhiata d'insieme alla cavità. Le scalfitture lasciate dalla nave erano ben visibili. Erano concentrate in un punto a mezza strada dal fondo del pozzo. Ci avrebbe pensato lui a sistemare la cosa.

Sotto la vampa del proiettore termico, la parete della cavità cominciò a fondere.

Mezz'ora più tardi, la nave s'infilava senza difficoltà nel pozzo e Swenson, indossando la sua tuta spaziale, uscì dallo scafo per unirsi a Rioz.

Gli disse: «Se vuoi entrare e toglierti la tuta, mi occuperò io della ghiacciata».

«Nessun problema» rispose Rioz. «Preferisco rimanermene seduto qui a guardare Saturno».

Si sedette sull'orlo del pozzo. C'era una breccia larga un metro e ottanta, in questo punto, fra la parete del pozzo e la nave. In altri punti lo stacco si riduceva a una sessantina di centimetri, o addirittura a un centimetro o due. Non ci si poteva aspettare che la nave e il pozzo combaciassero meglio di così, visto che il lavoro era stato fatto a mano. L'ultima operazione sarebbe consistita nello spruzzare delicatamente il vapore sul ghiaccio, lasciandolo congelare nella cavità fra il pozzo e la nave.

Saturno si spostava in maniera visibile attraverso il cielo, la sua immensa massa scompariva sotto l'orizzonte centimetro dopo centimetro.

Rioz chiese: «Quante navi devono ancora venir inserite?»

Swenson rispose: «L'ultima volta che ho avuto notizie, erano undici. Adesso siamo dentro anche noi, perciò significa che ne rimangono soltanto dieci. Sette di quelle inserite sono già state ghiacciate dentro. Soltanto due o tre sono state smantellate».

«Stiamo andando bene».

«Ci sono ancora un sacco di cose da fare. Non scordarti i getti principali all'altra estremità. E i cavi e i fili elettrici. A volte mi chiedo se ce la faremo. Durante il viaggio non mi preoccupavo tanto, ma proprio adesso, mentre me ne stavo seduto ai comandi, mi dicevo: "Non ce la faremo. Rimarremo qua fuori a morire di fame, con Saturno sopra di noi e nient'altro". Mi fa sentire...»

Non spiegò come lo faceva sentire. Si limitò a starsene seduto là.

Rioz osservò: «Pensi troppo».

«Per te è diverso» disse Swenson. «Continuo a pensare a Peter... e a Dora».

«Ma perché? Lei, non ha forse detto che potevi venire? Il commissario le ha fatto quel discorsetto sul patriottismo e su come tu saresti diventato un eroe e ti saresti sistemato per tutta la vita una volta che fossi tornato, e lei ha allora detto che potevi venire. Non sei sgattaiolato via come ha fatto Adams».

«Adams è diverso. Avrebbero dovuto sparare a sua moglie quando è nata. Certe donne possono trasformare la vita di un uomo in un inferno, no? Lei non voleva che partisse, ma è probabile che preferisca non vederlo tornare mai più e intascare la sua liquidazione».

«E allora, di che cosa ti lamenti, tu? Dora ti rivuole, no?»

Swenson sospirò: «Non l'ho mai trattata bene».

«Mi pare che tu le consegnassi sempre tutta la tua paga. Io non lo farei per nessuna donna al mondo. Io le darei soltanto i soldi in cambio del valore ricevuto, e non un centesimo di più».

«Non è questione di denaro. Qui fuori, ho avuto il tempo di pensare. A una donna piace aver compagnia. Un ragazzino ha bisogno di suo padre. Cosa sto facendo, io, così lontano da casa?»

«Ti stai preparando a tornarci».

«Ah, tu non capisci».

 

VIII

 

Ted Long vagò sulla superficie increspata del frammento dell'anello con il morale gelido come il ghiaccio sul quale camminava. Su Marte ogni cosa gli era sembrata perfettamente logica, ma quello era Marte. Aveva elaborato tutto con estrema attenzione nella sua mente, seguendo dei passi perfettamente ragionevoli. Riusciva ancora a ricordare esattamente com'era andata.

Non ci voleva una tonnellata d'acqua per far muovere una tonnellata di nave. Non era questione di massa uguale a massa ma di massa per la velocità uguale alla massa per la velocità. Non aveva importanza, in altre parole, che si espellesse una tonnellata d'acqua ad un miglio al secondo, o cinquanta chilogrammi d'acqua a venti miglia al secondo: la velocità finale che si otteneva dalla nave era sempre la stessa.

Ciò significava che il getto che usciva dagli ugelli doveva venir assottigliato e il vapore scaldato a una temperatura più alta. Ma poi si manifestavano degli svantaggi. Più il getto veniva assottigliato, più energia andava perduta nell'attrito e nella turbolenza. Più il vapore era surriscaldato, più l'ugello doveva essere refrattario, e più breve sarebbe stata la sua durata. In quella direzione, i suoi limiti venivano raggiunti molto rapidamente.

E poi aveva messo il dito su quello che sembrava il difetto principale: il concetto originario, inamovibile, che il combustibile dovesse venir posto all'interno della nave; che fosse necessario rinchiudere nel metallo un milione di tonnellate d'acqua.

Perché? Non era necessario che l'acqua fosse acqua. Poteva essere ghiaccio, e il ghiaccio poteva venir modellato. Era possibile fonderlo localmente aprendovi dei fori. Potevano venirvi incorporati testate e ugelli. I cavi potevano tenere insieme le testate e gli ugelli, grazie alla morsa di adeguati campi magnetici.

Long sentì tremare il suolo sul quale camminava. Era sul punto più alto del frammento. Una dozzina di navi stavano erompendo dentro e fuori dalle guaine scavate nella sua sostanza, e il frammento tremava sotto il continuo impatto.

Il ghiaccio non doveva venir estratto. Esistevano pezzi delle giuste dimensioni negli anelli di Saturno. Era di questo, e di questo soltanto, che erano fatti gli anelli di Saturno: pezzi di ghiaccio quasi puro, che orbitavano intorno al grande pianeta. Così aveva dichiarato la spettroscopia, e così era risultato essere. Adesso, lui era in piedi su uno di questi frammenti, lungo quasi due miglia, spesso un miglio. Era quasi mezzo miliardo di tonnellate d'acqua, in un unico pezzo, e lui c'era sopra.

Ma adesso, si trovava faccia a faccia con la realtà della vita. Non aveva mai detto agli uomini con quanta rapidità si era aspettato di organizzare il frammento come un'astronave, ma nel suo cuore si era immaginato che sarebbe stata una faccenda di due giorni. Adesso, era passata una settimana, e non osava stimare quanto tempo ci sarebbe ancora voluto. Aveva perfino perduto la sua incrollabile fiducia che il compito fosse possibile. Sarebbero stati in grado di controllare i getti con sufficiente flessibilità tramite cavi stesi su miglia di ghiaccio, così da sottrarre quella massa all'attrazione gravitazionale di Saturno?

Le scorte d'acqua erano esigue, anche se potevano sempre fonderne dell'altra dal ghiaccio. Comunque, neppure le riserve alimentari godevano di buona salute.

Si fermò un attimo, sollevò gli occhi verso il cielo, aguzzando la vista. L'oggetto stava diventando più grande. Avrebbe dovuto misurare la sua distanza. Ma in realtà non aveva un gran voglia di aggiungere quel guaio agli altri. La sua mente tornò a scivolare verso cose più immediate. Il morale, almeno, era alto. Agli uomini pareva piacesse trovarsi là fuori dalle parti di Saturno. Erano stati i primi esseri umani a spingersi così lontano, i primi a scavalcare gli asteroidi, i primi a vedere Giove a occhio nudo simile a un pallone ardente, i primi a vedere Saturno... così.

Non avrebbe mai pensato che cinquanta avvoltoi, gente pratica, indurita dagli eventi, abituata a ghermire i gusci dallo spazio, avrebbero perso tempo a provare quel genere d'emozione. Ma lo facevano. E ne erano orgogliosi.

Due uomini e una nave semisepolta s'innalzarono dal vicino orizzonte in movimento, mentre camminava.

Gridò, vivacemente: «Ehilà!»

Rioz rispose: «Sei tu, Ted?»

«Ci puoi scommettere. C'è Dick, là con te?»

«Sicuro. Vieni, siediti. Ci stavamo giusto preparando a ghiacciare e stavamo cercando una scusa per attardarci un po'».

«Io no» replicò prontamente Swenson. «Quand'è che ce ne andremo, Ted?»

«Non appena avremo finito. Ma non è una risposta, vero?»

Swenson disse, scoraggiato: «Suppongo che non ci sia nessun'altra risposta».

Long alzò lo sguardo, fissando la luminosa chiazza irregolare nel cielo.

Rioz seguì la direzione del suo sguardo. «Cosa c'è?»

Per un attimo, Long non rispose. Per ogni altro verso il cielo era nero e i frammenti dell'anello erano uno spolverio arancione stagliato contro di esso. Saturno era per più di tre quarti sotto l'orizzonte e gli anelli lo stavano accompagnando. A mezzo miglio di distanza una nave balzò nel cielo, oltrepassando il bordo ghiacciato del planetoide. Venne illuminata dalla luce arancione di Saturno, e affondò di nuovo.

Il suolo ebbe un lieve tremito.

Rioz aggiunse: «C'è qualcosa nell'Ombra che ti preoccupa?»

La chiamavano così. Era il frammento più vicino degli anelli, molto prossimo, considerato il fatto che si trovavano sul bordo esterno degli anelli, là dove i frammenti di ghiaccio erano alquanto sparpagliati. Si trovava forse a venti miglia di distanza, una montagna frastagliata, la sua forma chiaramente visibile.

«A te come sembra?» chiese Long.

Rioz scrollò le spalle. «A posto, direi. Non ci vedo niente di sbagliato».

«Non ti sembra che stia diventando più grande?»

«Perché dovrebbe?»

«Insomma, ti sembra o no?» insistette Long.

Rioz e Swenson lo fissarono pensierosi.

«Sembra più grande» annuì Swenson.

«Stai soltanto insinuando l'idea nella nostra mente» ribatté Rioz. «Se stesse diventando più grande, vorrebbe anche dire che si sta avvicinando».

«Cosa c'è d'impossibile in questo?»

«Questi affari sono in orbita stabile».

«Lo erano quando siamo arrivati qui» disse Long. «Ecco, hai sentito?»

Il suolo aveva tremato di nuovo.

Long proseguì: «È una settimana che stiamo martellando questo affare, ormai. Prima ci sono atterrate sopra venticinque astronavi che hanno immediatamente alterato la sua velocità. Non di molto, naturalmente. Poi ne abbiamo fuso alcune parti, e le nostre navi hanno decollato e ridecollato dentro e fuori da esso - e ad una sola estremità, per giunta. In una settimana, potremmo aver alterato la sua orbita d'una frazione sensibile. I due frammenti, questo e l'Ombra, potrebbero essere, adesso, convergenti».

«Ha un sacco di spazio per mancarci» Rioz lo squadrò, pensieroso. «Inoltre, se non riusciamo neppure a dire con sicurezza se sta diventando più grande, con quanta velocità può muoversi? Relativamente a noi, intendo dire».

«Non c'è bisogno che si sposti in fretta. La sua massa è quasi uguale alla nostra, cosicché, per quanto delicatamente ci colpisca, verremo spostati completamente fuori dalla nostra orbita, forse anche in direzione di Saturno, dove non vogliamo andare. E, infine, il ghiaccio ha una resistenza alla rottura molto bassa, cosicché entrambi i planetoidi potrebbero frantumarsi».

Swenson si alzò in piedi. «Dannazione, se riesco a capire come un guscio si muove a mille miglia di distanza, riuscirò bene a capire quello che fa una montagna che è soltanto a venti miglia». Si girò verso la nave.

Long non lo fermò.

Rioz commentò: «È un tipo nervoso».

Il planetoide che si stava avvicinando s'innalzò fino allo zenit, passò sopra di loro, cominciò a scendere. Venti minuti più tardi, l'orizzonte opposto al punto dietro al quale Saturno era scomparso esplose in una vampata arancione mentre la massa del pianeta ricompariva, stagliandosi nel cielo.

Rioz chiamò dentro la sua radio: «Ehi, Dick, sei morto laggiù?»

«Sto crollando» arrivò la risposta soffocata.

«Si sta muovendo?» chiese Long.

«Sì».

«Verso di noi?»

Vi fu una pausa. Poi la voce di Swenson risuonò, angustiata: «In pieno, Ted. Le due orbite s'intersecheranno entro tre giorni».

«Sei matto!» gridò Rioz.

«Ho controllato quattro volte» ribadì Swenson.

Long pensò: «Cosa facciamo adesso?» Ma la sua mente era vuota.

 

IX

 

Alcuni degli uomini stavano incontrando difficoltà con i cavi. Questi dovevano venir posti con precisione, la loro geometria doveva avvicinarsi alla perfezione per consentire al campo magnetico di agire con la massima efficacia. Nello spazio, o perfino in un'atmosfera, non avrebbe avuto importanza. I cavi si sarebbero automaticamente allineati non appena la propulsione fosse entrata in funzione. Qui, le cose erano diverse. Bisognava tracciare un solco sulla superficie del planetoide e il cavo doveva venire steso dentro a questo. Se non era allineato entro la tolleranza di pochi minuti d'arco, rispetto alla direzione calcolata, un momento torcente sarebbe stato applicato all'intero planetoide. Con una conseguente perdita di energia, che non poteva assolutamente venir sprecata. Si sarebbero dovuti scavare altri solchi, spostando e ghiacciando i cavi nella nuova posizione.

Gli uomini eseguirono faticosamente quel lavoro di routine.

E poi l'ordine li raggiunse:

«Tutti gli uomini ai getti!»

Non si poteva certo dire che gli avvoltoi fossero il tipo d'individui disposti ad accettare con remissività la disciplina. Fu un gruppo di gente ringhiante, brontolante, borbottante, quello che si mise al lavoro per smontare i getti delle navi che erano rimaste ancora intatte, trasportandoli in coda al planetoide, scavando i fori per metterli in posizione e stendendo i cavi lungo la sua superficie.

Passarono quasi ventiquattr'ore prima che uno di loro sollevasse lo sguardo al cielo ed esclamasse: «Santi numi!» seguito da qualcosa di meno pubblicabile.

Il suo vicino sollevò lo sguardo e aggiunse: «Che io sia dannato!»

Dopo di loro, se ne accorsero anche tutti gli altri, e divenne il fatto più stupefacente dell'universo.

«Guardate l'Ombra!»

Si stava allargando attraverso il cielo come una ferita infetta. Gli uomini la guardarono, scoprirono che aveva raddoppiato le sue dimensioni.

Praticamente, ogni lavoro cessò. Si assieparono tutti intorno a Ted Long.

Questi disse: «Non possiamo andarcene. Non abbiamo il combustibile per tornare su Marte e non abbiamo l'equipaggiamento per catturare un altro planetoide. Perciò dobbiamo rimanere. Adesso l'Ombra sta strisciando verso di noi perché le scariche dei nostri razzi ci hanno scagliato fuori orbita. Dobbiamo cambiare di nuovo orbita continuando a scaricare con i razzi. Ma poiché non possiamo più farlo all'estremità anteriore, per non mettere in pericolo questa specie di nave spaziale che stiamo costruendo, proviamo in un'altra maniera».

Si rimisero a lavorare ai getti con un'energia e un furore che riceveva nuovo impulso ogni mezz'ora, quando l'Ombra si levava di nuovo sopra l'orizzonte, più grande e più minacciosa di prima.

Long non aveva nessuna garanzia che avrebbe funzionato. Anche se i getti avessero risposto ai comandi lontani, anche se le scorte d'acqua, che dipendevano da un serbatoio che si apriva direttamente nel corpo ghiacciato del planetoide, con proiettori di calore incorporati che convogliavano il fluido propulsivo vaporizzato direttamente dentro le celle motrici, fossero state adeguate, non c'era nessuna certezza che il corpo del planetoide, senza essere avvolto in una rete di cavi magnetici, avrebbe retto a quelle tremende tensioni disgreganti.

«Pronti!» Il segnale giunse nel ricevitore di Long.

Long gridò: «Pronti!» e schiacciò il pulsante per stabilire il contatto.

Le vibrazioni crebbero intorno a lui. Il campo stellare nella videopiastra cominciò a tremare.

Nello schermo retrovisivo comparve un lontano vivido schiumeggiare, costituito da un turbinio di cristalli in rapido movimento.

«Sta soffiando!» fu il grido generale.

Continuò a soffiare. Long non osava fermarlo. Soffiò per sei ore, sibilando, schiumeggiando, vaporizzandosi nello spazio. Il corpo del planetoide veniva convertito in vapore e scagliato via.

L'Ombra giunse così vicina che gli uomini smisero di fare qualunque altra cosa e si misero a fissare quella montagna nel cielo, la quale adesso, come spettacolarità, superava lo stesso Saturno. Ogni suo singolo solco, ogni vallata, erano nitide cicatrici sulla sua superficie. Ma quando infine intersecò l'orbita del planetoide, lo fece a più di mezzo miglio indietro rispetto alla posizione in cui questo adesso si trovava.

Il getto di vapore cessò.

Long si piegò sopra il suo seggiolino e si coprì gli occhi. Non mangiava da due giorni. Adesso, però, avrebbe potuto farlo. Nessun altro planetoide era così vicino da poterli interrompere, anche se avesse iniziato il suo avvicinamento in quello stesso momento.

Sulla superficie del planetoide, Swenson dichiarò: «Per tutto il tempo che ho guardato quella maledetta roccia che scendeva verso di noi, mi sono detto in continuazione: "Non può succedere. Non possiamo permettere che succeda".»

«Diavolo» commentò Rioz. «Eravamo tutti nervosi. Hai visto Jim Davis? Era verde. Anch'io, sì, ero un po' agitato».

«Non è questo. Non era soltanto il fatto di... morire, sai. Pensavo... so che può parere strano, ma non posso farne a meno... pensavo che Dora mi aveva avvertito che mi sarei fatto ammazzare e non avrei mai più sentito cos'altro avrebbe avuto da obiettare. Non è un atteggiamento un po' balordo, in un simile momento?»

«Ascolta» disse Rioz, «tu volevi sposarti, e così ti sei sposato. Perché venire da me con i tuoi guai?»

 

X

 

La flotta, saldata in una singola unità, stava rifacendo l'enorme percorso da Saturno a Marte. Ogni giorno percorreva in un balzo un tratto di spazio per il quale all'andata c'erano voluti nove giorni.

Ted Long aveva posto l'intero equipaggio in stato d'emergenza. Con venticinque navi incassate nel planetoide asportato dagli anelli di Saturno, e incapaci di muoversi e ancor meno di manovrare in maniera indipendente, il coordinamento delle loro fonti di energia sotto forma di scariche sincronizzate era un problema scabroso.

Le scosse e i tremiti che vi furono durante il loro primo giorno di viaggio quasi li sbalzarono fuori da sotto le loro capigliature. Ogni cosa, però, si appianò man mano che la velocità cresceva sotto l'effetto della spinta costante dei retrorazzi. Il secondo giorno, sul tardi, superarono le centomila miglia all'ora, aumentando lentamente verso il milione di miglia e oltre.

La nave di Long, che formava la punta aguzza della flotta ghiacciata, era l'unica a disporre d'una visuale dello spazio a cinque vie. In quelle circostanze era una posizione scomoda. Long si ritrovò a guardare lo spettacolo intorno a sé in preda a una continua tensione, immaginando che in qualche modo le stelle avrebbero cominciato lentamente a scivolare all'indietro, per sfrecciare lontano da loro sotto l'influenza della spaventosa velocità della multinave.

Non lo facevano, naturalmente. Rimanevano inchiodate a quel fondale nero, disdegnando con la loro paziente immobilità qualunque velocità che potesse venir raggiunta da un misero essere umano.

Dopo i primi giorni gli uomini cominciarono a lamentarsi aspramente. Non era soltanto il fatto che erano stati privati della possibilità di galleggiare nello spazio. Erano appesantiti da molto di più del comune campo pseudogravitazionale delle navi, erano appesantiti dagli effetti della violenta accelerazione nella quale vivevano. Lo stesso Long si sentiva mortalmente affaticato dall'incessante pressione contro i cuscini idraulici.

Presero l'abitudine di spegnere le scariche dei getti un'ora su quattro, e Long fremeva.

Era passato poco più di un anno da quando aveva visto Marte rimpicciolire nell'oblò di osservazione di quella nave, che allora era ancora un'entità indipendente. Cos'era accaduto, da allora? La colonia si trovava ancora là?

Colto da un panico crescente, Long inviava giornalmente impulsi radio in direzione di Marte, usando l'energia congiunta di venticinque navi. Non c'era nessuna risposta. Lui non se ne aspettava nessuna. Adesso Marte e Saturno si trovavano sui lati opposti del Sole, e fino a quando non fossero saliti abbastanza in alto sopra l'eclittica da avere il Sole molto al di sotto della linea che li collegava idealmente a Marte, l'interferenza solare avrebbe impedito il passaggio di qualunque segnale.

In alto, sopra il bordo esterno della Cintura degli Asteroidi, raggiunsero la massima velocità. Qui, con violenti getti prima da un lato, poi dall'altro, il gigantesco vascello ruotò di centottanta gradi su se stesso. L'insieme dei retrorazzi riprese il suo ruggito, ma adesso davano inizio alla decelerazione.

Passarono a cento milioni di miglia sopra il Sole, incurvando poi la rotta verso il basso per intersecare l'orbita di Marte.

A una settimana da Marte vennero ricevuti per la prima volta segnali in risposta, frammentari, lacerati dall'etere, e incomprensibili: ma provenivano da Marte. La Terra e Venere si trovavano ad angoli sufficientemente diversi da non consentire nessun dubbio in proposito.

Long si rilassò: in ogni caso, su Marte c'erano ancora esseri umani.

A due giorni da Marte il segnale era forte e chiaro, e Sankov era all'altra estremità.

Sankov disse: «Ciao, figliolo. Qui sono le tre del mattino. Pare che la gente non abbia nessun rispetto per un vecchio. Mi hanno trascinato fuori dal letto».

«Mi spiace, signore».

«Non sentirti dispiaciuto. Hanno seguito i miei ordini. Ho paura di chiedertelo, figliolo. Qualcuno ferito? Forse morto?»

«Nessun morto, signore. Neppure uno.».

«E... l'acqua? Ce n'era, poi?»

Long rispose, sforzandosi di restare indifferente: «Abbastanza».

«In questo caso, tornate a casa il più rapidamente possibile. Senza correre nessun rischio, naturalmente».

«Allora ci sono guai».

«Quanti ne volete».

«Due giorni. Ce la farà a restare così a lungo?»

«Ce la farò».

Quaranta ore più tardi, Marte era cresciuto di dimensioni fino a diventare una palla rosso-arancio che riempiva gli oblò, e ormai si erano inseriti nell'ultima spirale per l'atterraggio sul pianeta.

«Piano» mormorò tra sé Long, «piano». In quelle condizioni, perfino la sottile atmosfera di Marte poteva causare dei danni terribili, se si fossero tuffati dentro di essa troppo in fretta.

Poiché erano giunti da molto al di sopra dell'eclittica, la loro spirale passava da nord a sud. Una calotta polare sfrecciò bianca sotto di loro poi quella molto più piccola nell'emisfero estivo, di nuovo quella grande... quella piccola, a intervalli sempre più lunghi. Il pianeta si avvicinava sempre di più, il paesaggio cominciava a mostrare le prime caratteristiche.

«Prepararsi all'atterraggio!» gridò Long.

 

XI

 

Sankov fece del suo meglio per apparire calmo e rilassato, il che era difficile, anche considerando quanto i ragazzi avevano accorciato la durata del loro ritorno. Ma riuscì a farcela abbastanza bene.

Fino a pochi giorni prima non aveva avuto nessuna certezza che fossero sopravvissuti. Pareva assai più probabile - quasi inevitabile - che ormai non fossero altro che corpi congelati, in qualche punto imprecisato delle distese inesplorate fra Marte e Saturno, nuovi planetoidi che un tempo erano stati vivi.

Il Comitato aveva trattato con lui per settimane prima dell'arrivo della notizia! Avevano insistito perché mettesse la sua firma sul documento, per salvare le apparenze. Sarebbe parso un accordo raggiunto volontariamente per reciproca decisione. Ma Sankov sapeva benissimo che se lui si fosse ostinato a rifiutarsi, avrebbero agito unilateralmente, infischiandosene delle apparenze. Adesso pareva più che certa l'elezione di Hilder, e avrebbero anche corso il rischio di sollevare una reazione di solidarietà con Marte.

Così, lui aveva tirato in lungo i negoziati, facendo costantemente balenare davanti ai loro occhi la possibilità di una resa.

E poi aveva avuto notizie da Long, e si era affrettato a concludere l'accordo.

I documenti gli erano stati posti davanti, e lui aveva fatto un'ultima dichiarazione a beneficio dei giornalisti presenti:

«Le importazioni di acqua dalla Terra» aveva detto, «assommano a venti milioni di tonnellate all'anno. Questa quantità è in diminuzione a mano a mano che sviluppiamo i nostri sistemi di pompaggio. Se firmerò questo documento, consentendo così a un embargo, la nostra industria rimarrà paralizzata, e ogni possibilità di sviluppo si arresterà. A me pare che non sia questo che la Terra ha in mente di fare, non è vero?»

I loro occhi incontrarono i suoi, e c'era soltanto un duro luccichio. Il membro dell'Assemblea Digby era già stato sostituito ed erano unanimemente contro di lui.

Il presidente del Comitato gli fece notare con impazienza: «L'ha già detto prima».

«Lo so. Ma in questo momento io mi sto accingendo a firmare, e voglio che la cosa sia ben chiara nella mia mente. La Terra è decisa, in tutti i casi, a mettere la parola fine alla nostra presenza quassù?»

«Certo che no. La Terra è interessata a conservare la sua insostituibile riserva d'acqua, nient'altro».

«Avete un quintilione e mezzo di tonnellate d'acqua, sulla Terra».

Il presidente del Comitato replicò: «Non possiamo sprecare l'acqua».

E Sankov aveva firmato.

Quella era stata l'osservazione finale che aveva voluto render pubblica: la Terra aveva un quintilione e mezzo di tonnellate d'acqua e non poteva sprecarne neppure una goccia.

Adesso, un giorno e mezzo più tardi, il Comitato e i giornalisti aspettavano sotto la cupola dello spazioporto. Attraverso le spesse finestre ricurve, potevano vedere il terreno spoglio e vuoto dello spazioporto di Marte.

Il presidente del Comitato chiese, infastidito: «Quanto tempo dobbiamo ancora aspettare? E se non le spiace, cosa stiamo aspettando?»

Sankov rispose: «Alcuni dei nostri ragazzi sono stati fuori nello spazio, al di là degli asteroidi».

Il presidente del Comitato si tolse gli occhiali dal naso, li pulì con cura con un fazzoletto candido come la neve. «E stanno tornando?»

«Sì».

Il presidente scrollò le spalle e sollevò le sopracciglia accennando ai giornalisti.

In una stanza adiacente, più piccola, una folla di donne e bambini si accalcava intorno a un'altra finestra. Sankov fece qualche passo indietro per lanciare un'occhiata nella loro direzione. Avrebbe preferito trovarsi insieme a loro, essere parte della loro eccitazione, della loro tensione. Adesso era più di un anno che lui, come loro, stava aspettando. Lui, come loro, aveva pensato, più e più volte, che quegli uomini dovevano essere morti.

«Vedete quella?» disse Sankov all'improvviso, indicando con un dito.

«Ehi!» gridò un giornalista. «È una nave!»

Un confuso gridare giunse dalla stanza adiacente.

Non era tanto una nave, quanto un punto brillante oscurato da una bianca nube alla deriva. La nube divenne più grande e cominciò ad assumere una forma. Era una doppia striscia contro il cielo, le estremità inferiori si gonfiavano all'infuori per poi salire di nuovo. Quando fu ancora di più discesa verso il suolo, il punto luminoso all'estremità superiore assunse una forma rozzamente cilindrica.

Era ruvido e accidentato, ma là, dove veniva colpito dalla luce del sole, mandava vividi riflessi.

Il cilindro discese verso il suolo con la pesante lentezza tipica dei vascelli spaziali. Rimase sospeso su quei getti avvampanti adagiandosi sul rinculo di tonnellate di materia scagliate verso il basso, come un uomo affaticato che si lasciasse cadere nella sua poltrona.

Mentre faceva questo, il silenzio calò su tutti quelli che si trovavano dentro la cupola. Le donne e i bambini in una stanza, gli uomini politici e i giornalisti nell'altra, rimasero paralizzati e increduli, con la testa rivolta verso l'alto.

Le flange di atterraggio del cilindro si estendevano molto al di sotto dei due retrorazzi: toccarono infine il suolo e sprofondarono dentro quella distesa di ciottoli. Poi la nave s'immobilizzò, e l'azione dei razzi cessò.

Ma nella cupola continuò a dominare il silenzio. Dominò molto a lungo. Gli uomini cominciarono a scendere lungo i fianchi dell'immenso vascello, centimetro dopo centimetro, lungo il percorso di due miglia, fino al suolo, con le scarpe chiodate e le piccozze da ghiaccio in pugno. Erano moscerini su quella accecante superficie.

Uno dei giornalisti gracidò: «Cos'è?»

«Si dà il caso» rispose Sankov con calma, «che quello sia un pezzo di materia che passava il suo tempo a gironzolare intorno a Saturno, come parte dei suoi anelli. I nostri ragazzi l'hanno traghettato fino a casa. È il risultato, guarda caso, che gli anelli di Saturno sono fatti di ghiaccio».

Parlò ancora, in quel profondo, mortale silenzio: «Quella cosa che sembra una nave spaziale è soltanto una montagna d'acqua ghiacciata. Se si trovasse così sulla Terra, fonderebbe diventando una pozzanghera, o forse si spezzerebbe sotto il suo stesso peso. Ma Marte è più freddo e ha una minor gravità, perciò non esiste un tale pericolo.

«Naturalmente, non appena avremo completato la nostra organizzazione, potremo avere stazioni d'acqua sulle lune di Saturno e di Giove e sugli asteroidi. Potremo ridurre alle giuste dimensioni i pezzi degli anelli di Saturno e mandarli alle varie stazioni. I nostri avvoltoi sono in gamba per questo genere di cose.

«Avremo tutta l'acqua che ci serve. Quel pezzo che vedete è poco meno d'un miglio cubico... all'incirca quello che la Terra ci avrebbe mandato in duecento anni. I ragazzi ne hanno usato un po' per tornare da Saturno. Mi dicono di aver fatto il viaggio in cinque settimane e di averne usato circa cento milioni di tonnellate. Ma, signori, questo non ha neppure scalfito quella montagna. Avete capito tutto, ragazzi?»

Si voltò verso i giornalisti. Non c'era nessun dubbio che l'avessero capito.

Aggiunse: «Allora, scrivete anche questo. La Terra è preoccupata per la propria riserva d'acqua. Ne ha soltanto un quintilione e mezzo di tonnellate. Non può concedercene neanche una tonnellata, una sola. Scrivete che noi, gente di Marte, siamo preoccupati per la Terra e non vogliamo che succeda niente agli abitanti della Terra. Scrivete che saremo noi a vendere acqua alla Terra. Scrivete che gliela faremo avere a lotti di un milione di tonnellate, a un prezzo ragionevole. Scrivete che fra dieci anni contiamo di poterla vendere a lotti di miglia cubiche. Scrivete che la Terra può smettere di preoccuparsi, perché Marte può vendergli tutta l'acqua di cui ha bisogno e che vorrà».

Il presidente del Comitato non ascoltava più. Sentiva che il futuro gli stava precipitando addosso. Poteva vedere vagamente i giornalisti che sogghignavano mentre prendevano furiosamente appunti.

Sogghignavano.

Poteva sentire il sogghigno che diventava una risata sulla Terra, mentre Marte rovesciava con tanta abilità le carte contro gli antispreconi. Poteva sentire la risata rimbombare da un continente all'altro quando la notizia del loro fiasco si fosse diffusa. E poteva vedere l'abisso, profondo e nero come lo spazio, nel quale sarebbero precipitate per sempre le speranze di John Hilder e di ogni oppositore dei voli spaziali rimasto sulla Terra... comprese le sue, naturalmente.

Nella stanza adiacente, Dora Swenson urlava di gioia, e Peter, cresciuto di cinque centimetri, saltava su e giù, gridando: «Papà, papà!»

Richard Swenson era appena sceso dall'estremità della flangia e, con il volto chiaramente visibile attraverso il limpido silicone del casco, marciò in direzione della cupola.

«Hai mai visto un tizio più felice di lui?» domandò Ted Long. «Forse c'è qualcosa, in questa faccenda del matrimonio».

«Ah, è soltanto che sei rimasto troppo a lungo nello spazio» disse Rioz.

 

L'uomo incastrato

The Impacted Man

di Robert Sheckley

Astounding, dicembre

 

Robert Sheckley è un uomo - e uno scrittore - che letteralmente fa sgorgare gli aggettivi: arguto, abile, cortese, cinico, intelligente, maestro dell'assurdo... ma soprattutto è bravo. Malgrado «L'uomo incastrato» sia comparso su Astounding, Robert Sheckley divenne molto in fretta l'autore di Galaxy per antonomasia, per lo meno sotto la direzione di Horace Gold. I racconti dal 1952 fino ai primi anni Sessanta furono talmente numerosi che fu costretto a usare parecchi pseudonimi, il più noto dei quali fu Fin o'Donnevan. Più tardi avrebbe pubblicato quindici o più romanzi, sia dentro che fuori della fantascienza, ma finora questi non hanno eguagliato l'impatto qualitativo dei suoi lavori più brevi. Per fortuna le sue storie sono state, fino dai primordi e in continuazione, raccolte sotto forma di volume, a partire dal 1954 con Untouched by Human Hands (Non toccate da mani umane). Il suo tema centrale è che «le cose non sono quello che sembrano», che la realtà sta nell'occhio di chi la guarda. È uno dei pochissimi scrittori che sanno essere allo stesso tempo profondamente umoristici e umoristicamente profondi. - M.H.G.

 

Suppongo di essere capace come chiunque altro di riconoscere un talento. Stando ad Alexei Panshin, fui io la prima persona a scrivere lettere ad Astounding tessendo le lodi di Robert Heinlein. Non ricordavo di essere stato il primo ma Alexei è un ricercatore meticoloso, e se lo dice lui dev'essere così. So che devo essere stato fra i primissimi a notare quanto fosse bravo Bob Sheckley. Lo incontrai per la prima volta un giorno in cui entrai nell'ufficio di Fred Pohl, che per un periodo di tre anni fu il mio agente (il solo che abbia mai avuto e molto bravo, come fu un ottimo curatore quando fece il curatore, come è un buon scrittore quando scrive, e un bravo essere umano in tutti i momenti della giornata - salvo il fatto che è un fumatore incallito). Dov'ero rimasto... Oh, sì, entrai nell'ufficio di Fred e là c'era il giovane Bob Sheckley, ancora sulla prima metà della ventina, e c'era Fred che lo calmava e lo rassicurava. Naturalmente, ciò fece sì che Bob s'imprimesse nella mia mente, feci attenzione alle sue storie, e mi piacquero. In effetti, c'è un gran numero delle sue storie che mi sono particolarmente piaciute, e vedrò a quante di esse farò superare l'esame di Marty nei futuri volumi... Ma non dovrebbe essere difficile: piacciono anche a lui. - I.A.

 

A: CENTRO

Ufficio 41

ALL'ATTENZIONE DI: Assistente Controllore Miglese

Da: Appaltatore Carienomen

OGGETTO: Metagalassia AITALA

 

Caro Controllore Miglese,

questo è per informarLa che ho completato il contratto 13371A. Nella regione spaziale chiamata ATTALA ho costruito una metagalassia che incorpora 549 miliardi di galassie, con la normale distribuzione di ammassi stellari, variabili, novae, eccetera. Vedi allegato foglio con i dati. I limiti esterni della metagalassia ATTALA sono definiti nella mappa inclusa.

Parlando per me, come capo disegnatore, e per la mia compagnia, sono certo che è stato realizzato un valido lavoro costruttivo, oltre che un'opera di grande merito artistico.

Aspettiamo fiduciosi la Vostra ispezione.

Avendo adempiuto ai termini del nostro contratto, restiamo in attesa del pagamento della tariffa concordata.

 

Rispettosamente,

Carienomen

 

Allegati:

1 foglio informativo delle installazioni

1 mappa della metagalassia ATTALA

 

A: Quartier Generale Costruzioni

334132, Interno 12

ALL'ATTENZIONE DI: Capo Progettista Carienomen

DA: Assistente Controllore Miglese

OGGETTO: Metagalassia ATTALA

 

Caro Carienomen,

abbiamo ispezionato la Vostra costruzione e di conseguenza abbiamo sospeso il pagamento della Vostra tarijfa. Artistica! Suppongo sia artistica. Ma non si è forse dimenticato la nostra principale preoccupazione in una costruzione?

La robustezza, la coerenza, giusto per ricordarglielo.

I nostri ispettori hanno scoperto una grande quantità di dati inspiegabili, perfino intorno al centro metagalattico, una regione che, ci sarebbe da supporre, avreste dovuto costruire con la maggior cura. Questo non può continuare. Per fortuna la regione è disabitata.

E non del tutto. Le dispiacerebbe spiegarci i vostri fenomeni spaziali? In nome del caos, cos'è quello spostamento verso il rosso che avete incorporato? Ho letto la spiegazione che ne ha dato, e per me non ha alcun senso. Come la prenderanno gli osservatori planetari?

Appellarsi all'arte non è affatto una scusa.

Inoltre, che razza di atomi ha usato? Carienomen, sta forse cercando di risparmiare quattrini utilizzando materiali di scarto? Una buona percentuale di quegli atomi sono instabili! Si rompono al tocco di un dito. Non poteva trovare qualche altro modo per accendere i suoi soli?

Accluso c'è un foglio di dati che descrivono le conclusioni dei nostri ispettori.

Nessun pagamento finché non saranno state apportate le opportune rettifiche.

E c'è un'altra, grave faccenda che è stata portata adesso alla mia attenzione. È evidente che non stavate molto attenti alle tensioni e alle sollecitazioni del vostro tessuto spaziale. Abbiamo individuato una falla temporale vicino alla periferia di una delle vostre galassie. Al momento è piccola, ma potrebbe crescere. Le suggerisco di prendersene subito cura.

Uno degli abitanti d'un pianeta a contatto con detta falla è già rimasto incastrato; è incuneato dentro la falla, e ciò è interamente dovuto alla sua negligenza. Le suggerisco di correggere questo difetto prima che esca dalla sua normale sequenza temporale creando paradossi a destra e a sinistra.

Si metta in contatto con lui, se necessario.

Inoltre, ho ricevuto notizia di altri fenomeni spiegati su alcuni dei vostri pianeti: particolari come maiali volanti, montagne mobili, spettri e altre cose del genere, tutti elencati nel foglio delle lagnanze.

Non siamo disposti ad accettare questo genere di cose, Carienomen. Ogni paradosso è rigorosamente vietato nelle galassie create, giacché un paradosso è l'inevitabile causa prima del caos.

Si occupi subito di quell'incastro. Non so se l'individuo incastrato se ne sia già reso conto.

 

Miglese

 

Allegato: 1 elenco di lamentele

 

Kay Masrin ripiegò l'ultima blusa, la mise nella valigia che chiuse con l'aiuto di suo marito.

«Ecco fatto» disse Jack Masrin, sollevando il bagaglio rigonfio. «Di' addio alla vecchia dimora». Girarono lo sguardo tutt'intorno nella camera ammobiliata in cui avevano trascorso il loro ultimo anno.

«Addio, dimora» esclamò Kay. «Cerchiamo di non perdere il treno».

«C'è tempo in abbondanza». Jack Masrin si diresse verso la porta. «Andiamo a dare addio al Ragazzo Felice». Avevano dato quel soprannome al signor Harf, il loro padrone di casa, perché sorrideva una volta al mese, quando gli pagavano l'affitto. Naturalmente, provvedeva subito a rimodellare la bocca, facendole assumere la consueta linea compassata.

«Non facciamolo» rispose Kay, lisciandosi il vestito confezionato su misura. «Potrebbe augurarci buona fortuna, e poi cosa accadrebbe?»

«Hai perfettamente ragione» annuì Masrin. «Non vale certo la pena cominciare una nuova vita con le benedizioni del Ragazzo Felice. Preferirei la maledizione della strega di Endor».

Seguito da Kay Masrin, raggiunse la sommità delle scale. Guardò il pianerottolo del primo piano, sotto di lui, e si arrestò di colpo.

«Cosa c'è?» chiese Kay.

«Non ci siamo dimenticati niente?» fece Masrin, corrugando la fronte.

«Ho controllato tutti i cassetti e sotto il letto. Vieni, altrimenti faremo tardi».

Masrin tornò a guardare in fondo alle scale. Qualcosa lo tormentava. Cercò in fretta la fonte di quella preoccupazione. Certo, erano praticamente senza soldi. Ma ciò non l'aveva mai preoccupato in passato. Aveva un lavoro come insegnante, finalmente, anche se era nello Iowa. Quella era la cosa importante, dopo aver fatto per un anno il commesso in una libreria. Ogni cosa andava benissimo. Perché doveva preoccuparsi?

Scese un gradino, e tornò a fermarsi. La sensazione era più intensa. C'era qualcosa che non avrebbe dovuto fare. Si voltò a guardare Kay.

«Detesti così tanto l'idea di andarcene?» gli chiese Kay. «Andiamocene, altrimenti il Ragazzo Felice ci farà pagare un altro mese di affitto. Che, per qualche strana ragione, non saremmo in grado di pagare».

Tuttavia, Masrin esitò ancora. Kay lo sorpassò e scese di corsa le scale.

«Visto?» disse, dal pianerottolo del primo piano. «È facile. Su, vieni dalla mamma».

Masrin borbottò alcune imprecazioni a bassa voce, poi cominciò a scendere le scale. La sensazione divenne ancora più forte.

Raggiunse l'ottavo gradino, e...

Era in piedi in mezzo a una pianura erbosa. La transizione era stata istantanea.

Rimase a bocca aperta e sbatté gli occhi. Aveva ancora in mano la valigia, ma dov'era la casa di arenaria? Dov'era Kay? Dov'era, soprattutto, New York?

In lontananza c'era una piccola montagna azzurra. Più vicino, vide una macchia d'alberi. Davanti alla macchia, c'era una dozzina di uomini.

Masrin era in stato di shock, come se si trovasse in un sogno. Osservò, quasi passivamente, che quegli uomini erano bassi di statura, dalla pelle scura, nerboruti. Indossavano dei perizoma, e impugnavano randelli meravigliosamente scolpiti e lucidati.

Lo stavano osservando, e Masrin decise che si sarebbe dovuta lanciare una monetina per decidere chi, fra lui e loro, fosse più sorpreso.

Un randello rimbalzò sulla sua valigia.

Lo shock si dissolse. Masrin si girò, lasciò cadere la valigia e si mise a correre come un levriero. Un randello lo colpì alla schiena, facendolo quasi cadere lungo disteso. Davanti a lui c'era una collinetta. Prese a salirla a grandi balzi, con un nugolo di frecce che gli fioccava intorno.

Pochi metri più in su si rese conto di trovarsi di nuovo a New York.

Era in cima alle scale, sempre lanciato di corsa, e prima di riuscire a fermarsi andò a sbattere contro la parete. Kay si trovava sul pianerottolo del primo piano; guardava in alto. Cacciò un rantolo, quando lo vide, ma non disse niente.

Masrin fissò le familiari pareti color malva sporco della casa di arenaria, e poi sua moglie.

Niente selvaggi.

«Cos'è successo?» bisbigliò Kay, bianca in volto, salendo le scale.

«Cos'hai visto?» chiese Masrin. Non aveva avuto la possibilità di capire tutto quello che era accaduto... Idee, teorie, conclusioni si stavano riversando nella sua testa come un torrente.

Kay esitò, mordendosi il labbro inferiore. «Sei sceso d'un paio di gradini, poi sei scomparso. Non sono più riuscita a vederti. Sono rimasta lì, e ho continuato a guardare. Poi ho sentito un rumore, e tu eri di ritorno sulle scale. Di corsa».

Tornarono indietro, alla loro stanza, e aprirono la porta. Kay si lasciò cadere, seduta, sul letto. Masrin cominciò a camminare avanti e indietro, riprendendo il fiato. Idee e teorie stavano ancora affluendo, e aveva difficoltà a setacciarle.

«Non mi crederesti» disse.

«Oh, ma guarda. Prova!»

Le descrisse i selvaggi.

«Potevi anche dirmi che eri finito su Marte» esclamò Kay. «Ti avrei creduto. Ti ho visto scomparire».

«La mia valigia!» sbottò Masrin all'improvviso, ricordando che l'aveva fatta cadere.

«Oh, dimentica la valigia» replicò Kay.

«Devo tornare a prenderla» insisté Masrin.

«No!»

«Devo farlo. Senti, cara. Quello che è successo è molto ovvio. Sono passato attraverso una specie di falla temporale, che mi ha spedito indietro nel passato. Devo essere atterrato nella preistoria, a giudicare dal comitato di ricevimento che mi sono trovato davanti. Devo assolutamente tornare a prendere quella valigia».

«Perché?» chiese Kay.

«Perché non posso permettere che ci sia un paradosso». Masrin non si chiese neppure come faceva a saperlo. Il suo naturale egoismo gli evitò di chiedersi come mai l'idea avesse avuto origine nella sua mente.

«Ascolta» disse, «la mia valigia atterra nel passato. Dentro ci sono il mio rasoio elettrico, dei calzoni con la chiusura lampo, un pettine di plastica, una camicia di nylon, e all'incirca una dozzina di libri... alcuni appena pubblicati, nel 1951. C'è perfino il Western Ways di Ettison, un testo sulle civiltà occidentali dal 1490 ai giorni nostri.

«Il contenuto di quella valigia potrebbe dare a quei selvaggi lo stimolo per cambiare la loro storia. E supponi che un po' di quella roba finisca nelle mani degli europei, dopo che avranno scoperto l'America. Che effetto avrebbe sul presente?»

«Non lo so» ribatté Kay. «E non lo sai neanche tu».

«Certo che lo so» disse Masrin. Era tutto limpido come il cristallo nella sua mente. Era stupido che lei non riuscisse a seguire il filo di quella logica.

«Considera la cosa in questo modo» proseguì. «Sono proprio le piccole cose, le inezie, che fanno la storia. Il presente è costituito da un numero incredibile di fattori infinitesimali che hanno dato forma e plasmato il passato, Se aggiungi un altro fattore al passato, è inevitabile che si ottenga un diverso risultato al presente. Ma il presente è così com'è, è immutabile. Abbiamo perciò un paradosso. E non può esserci nessun paradosso!»

«Perché no?» chiese Kay.

Masrin corrugò la fronte. Per essere una ragazza intelligente, lo stava seguendo con eccessiva difficoltà. «Credimi e basta» concluse. «In un universo logico, il paradosso non è consentito». Consentito da chi? Ma aveva la risposta.

«Da come la vedo io» continuò Masrin, «dev'esserci un principio che regola l'universo. Tutte le nostre leggi naturali ne sono l'espressione. Questo principio non può sopportare il paradosso, perché... perché...» Sapeva che la risposta aveva a che fare con la soppressione del caos primigenio, ma non ne sapeva il perché. «Comunque, questo principio non può sopportare il paradosso».

«Dove hai preso quest'idea?» gli chiese Kay. Mai prima di allora aveva sentito Jack parlare in quel modo.

«Ho queste idee da lungo tempo» dichiarò Masrin, e lo credeva in tutta sincerità, «soltanto che non ho trovato nessun motivo per parlarne. Comunque, ora torno a riprendere la mia valigia».

Uscì sul pianerottolo seguito da Kay. «Mi spiace di non poterti portare nessun souvenir» le disse allegramente. «Sfortunatamente, anche questo darebbe come risultato un paradosso. Ogni cosa nel passato ha svolto un ruolo nel plasmare il presente. Se togli qualcosa, è come togliere un'incognita da un'equazione. Non otterresti più gli stessi risultati». Cominciò a scendere le scale.

Giunto all'ottavo gradino, scomparve di nuovo.

 

Era tornato nell'America preistorica. I selvaggi si erano radunati intorno alla valigia, a pochi metri soltanto da lui. Masrin notò, con émpito di sollievo, che non l'avevano ancora aperta. Naturalmente la valigia stessa era un articolo assai paradossale. Ma il suo aspetto - e del resto anche quello della sua persona - con tutta probabilità sarebbero stati incorporati dal mito e dalla leggenda. Il tempo aveva una certa dose di flessibilità.

Guardandoli, Masrin non riuscì a decidere se fossero predecessori dei pellirosse, oppure una sottorazza separata che non era sopravvissuta. Si chiese se lo stessero giudicando un nemico, oppure una varietà domestica dello spirito del male.

Masrin si precipitò in avanti, spinse da parte due dei selvaggi, e afferrò la sua valigia. Tornò indietro di corsa, girando intorno alla piccola collina, e si fermò.

Era ancora nel passato.

In nome del caos, dov'era quel buco nel tempo? si chiese Masrin, senza rendersi conto della stranezza di ciò che questo implicava. Adesso i selvaggi stavano venendo verso di lui, girando a loro volta intorno alla collinetta. Masrin aveva quasi trovato la risposta, poi la perse quando una freccia gli sibilò accanto. Ripartì di corsa, tentando di tenere la collina fra sé e gli inseguitori. Le sue lunghe gambe si muovevano come due pistoni, e un randello rimbalzò sul terreno dietro di lui.

Dove si trovava quel buco nel tempo? E se si fosse spostato? Il sudore gli sgorgava dal viso mentre correva. Un randello gli sfiorò il braccio. Masrin accelerò ancora la sua corsa, alla frenetica ricerca d'un rifugio.

Quasi andò a sbattere contro tre tozzi selvaggi che lo inseguivano. Masrin cadde al suolo, mentre quelli avanzavano facendo roteare i loro randelli. I tre selvaggi inciamparono sul suo corpo. Ma ne stavano arrivando altri, e lui balzò in piedi.

Su! Il pensiero lo colpì all'improvviso, penetrando la sua paura. Su!

Si lanciò su per la collina, sicuro che non sarebbe mai riuscito ad arrivare vivo in cima.

E si ritrovò nella pensione, sempre con la valigia in mano.

«Sei ferito, tesoro?» Kay lo abbracciò. «Cos'è successo?»

Masrin fu colto da un unico pensiero razionale. Non riusciva a ricordare nessuna tribù preistorica che scolpisse i propri randelli in maniera tanto elaborata quanto quei selvaggi. Era una forma d'arte quasi unica, e desiderò di riuscire a portare uno di quei randelli in un museo.

Poi fissò con occhi spiritati le pareti color malva, aspettandosi di vedere sbucare fuori i selvaggi per saltargli addosso. O magari c'erano degli strani omettini chiusi nella sua valigia. Lottò per recuperare il controllo. La porzione pensante della sua mente gli disse di non allarmarsi: le falle temporali erano possibili, e lui era rimasto incuneato, incastrato in una di esse. Tutto il resto ne seguiva logicamente. Tutto quello che lui doveva fare...

Ma un'altra parte della sua mente non era interessata nella logica. Aveva fissato, senza vederla, l'impossibilità di tutta quella faccenda, senza lasciarsi influenzare da una qualsiasi argomentazione razionale. Quella parte della sua mente riconosceva una cosa impossibile quando la vedeva, e lo proclamava.

Masrin urlò e svenne.

 

A: CENTRO

Ufficio 41

ALL'ATTENZIONE DI: Assistente Controllore Miglese

DA: Appaltatore Carienomen

OGGETTO: Metagalassia ATTALA

 

Caro Signore,

considero ingiusto il suo atteggiamento. È vero, ho utilizzato alcune nuove idee nel mio approccio a questa particolare metagalassia. Mi sono concesso la larghezza ispirativa dell'artista, senza mai pensare che sarei stato ossessionato dagli ululati di un CENTRO reazionario e statico.

Acclusa troverà una dichiarazione a mia difesa circa l'uso che ho fatto dello spostamento verso il rosso, e un'altra dichiarazione circa i vantaggi conseguiti usando una piccola percentuale di atomi instabili sia per l'accensione delle stelle che per il rifornimento d'energia.

In quanto alla falla temporale, quello è stato soltanto un piccolo errore nel flusso di durata, e non ha niente a che fare con il tessuto dello spazio, che è, glielo posso garantire, di primissima qualità.

C'è, come lei mi ha fatto notare, un individuo incastrato nella falla, il quale rende il lavoro di riparazione leggermente più difficile. Sono stato in contatto con lui, indirettamente, s'intende, e sono riuscito a fornirgli una comprensione limitata del suo ruolo.

Se non disturberà troppo la falla viaggiando nel tempo, dovrei essere in grado di eseguire la ricucitura senza troppa difficoltà. Tuttavia non so se questa procedura sia possibile. Il mio rapporto con lui è piuttosto traballante, e sembra che sia circondato da un certo numero di forti influenze, che lo consigliano di muoversi.

Potrei eseguire un'estrazione, naturalmente, e in ultima analisi potrei trovarmi costretto a fare proprio questo. Se è per questo, se la faccenda dovesse sfuggirmi di mano, potrei trovarmi costretto a estrarre l'intero pianeta. Spero di no, poiché questo comporterebbe la necessità di sgombrare l'intera porzione di spazio, dove ci sono anche osservatori locali. Questo, a sua volta, potrebbe comportare la ricostruzione dell'intera galassia.

Comunque, spero di aver risolto il problema quando comunicherò con lei la prossima volta.

La distorsione al centro della metagalassia è stata causata da alcuni operai che hanno lasciato aperta una unità di eliminazione rifiuti. Adesso è stata chiusa.

I fenomeni quali le montagne che camminano, eccetera, vengono appianati nella solita maniera.

Il pagamento per il lavoro fatto mi è ancora dovuto.

Rispettosamente,

Carienomen

 

Allegati:

1 dichiarazione 5541 pagine. Spostamento verso il rosso

1 dichiarazione 7689 pagine. Atomi instabili

 

A: Quartier Generale Costruzioni

334132, interno 12

ALL'ATTENZIONE DI: Appaltatore Carienomen

DA: Assistente Controllore Miglese

SOGGETTO: Metagalassia ATTALA

 

Carienomen, lei verrà pagato dopo che mi avrà fatto vedere un lavoro logico e decentemente costruito. Leggerò le sue dichiarazioni se e quando ne avrò tempo. Si occupi di quell'incastro nella falla temporale prima che laceri il tessuto dello spazio aprendovi un foro.

Miglese

 

Masrin riprese il controllo di sé dopo mezz'ora. Kay gli mise un impacco su un livido azzurro che aveva sul braccio. Masrin ricominciò a marciare avanti e indietro per la stanza. Ancora una volta era in pieno possesso delle sue facoltà. Le idee cominciavano a tornargli.

«Il passato è giù» disse, in parte a Kay e in parte a se stesso. «Non intendo dire davvero "giù", ma quando mi muovo in quella direzione apparente, passo attraverso il buco nel tempo. È un caso di spostamento dimensionale congiunto».

«Cosa significa?» chiese Kay, fissando suo marito con gli occhi sgranati.

«Basterà che tu mi prenda in parola» rispose Masrin. «Il fatto è che... non posso scendere». Non poteva spiegarglielo meglio di così. Non c'erano parole adeguate ai concetti.

«Puoi andare su?» chiese ancora Kay, completamente confusa.

«Non lo so. Suppongo che se andassi su, finirei nel futuro».

«Oh, non ce la faccio» si lamentò Kay. «Cosa c'è che non va, in te? Come farai a uscire da qui? Come farai a scendere quella scala stregata?»

«Siete ancora là?» gracidò dall'esterno la voce del signor Harf. Masrin si avvicinò alla porta e l'aprì.

«Credo che rimarremo qui per un po'» disse, rivolto al padrone di casa.

«Niente affatto» dichiarò Harf. «Ho già affittato di nuovo questa stanza». Ragazzo Felice Harf era piccolo e ossuto, con un cranio stretto e delle labbra sottili come un filo di tela di ragno. Entrò a grandi passi nella stanza, guardandosi intorno per vedere se c'erano segni di danni alla sua proprietà. Una delle piccole idiosincrasie del signor Harf era la convinzione che le persone più simpatiche fossero capaci dei crimini più orrendi.

«Quando arrivano gli altri?» chiese Masrin.

«Questo pomeriggio. E vi voglio fuori quando arriveranno qui».

«Non potremmo raggiungere un accordo?» chiese Masrin. Fu colpito dall'impossibilità della situazione. Non poteva scendere dabbasso. Se Harf l'avesse costretto a uscire, sarebbe ineluttabilmente finito nella New York della preistoria, dov'era certo che il suo ritorno fosse atteso con grande impazienza. E c'era il problema più generale del paradosso!

«Sto male» fece Kay, con una vocina soffocata. «Non posso andarmene, non ancora».

«Che male ha? Chiamerò un'ambulanza, se sta male» disse Harf, guardandosi sospettosamente intorno alla caccia di qualche segno di peste bubbonica.

«Sarò lieto di pagarle il doppio dell'affitto se ci permetterà di rimanere un po' più a lungo» rispose Masrin.

Harf si grattò la testa e fissò Masrin. Si asciugò il naso col dorso della mano e chiese: «Dove sono i soldi?»

Masrin si rese conto che gli rimanevano soltanto dieci dollari, e i biglietti del treno. Lui e Kay avrebbero dovuto chiedere un anticipo non appena avessero raggiunto l'università.

«È al verde no?» disse Harf. «Credevo che avesse un lavoro in qualche scuola».

«Ce l'ha» ribatté Kay, con fermezza.

«Allora, perché non ci andate e non uscite da casa mia?» domandò Harf.

I Masrin rimasero silenziosi. Harf li fissò furioso.

«Molto sospetto. Andatevene prima di mezzogiorno, o chiamo un poliziotto».

«Aspetti» disse Masrin. «Abbiamo pagato l'affitto per oggi. La stanza è nostra fino a mezzanotte».

Harf li fissò di nuovo, soprappensiero. Si asciugò un'altra volta il naso.

«Non tentate di rimanere un minuto di più» li rampognò, uscendo dalla stanza pestando i piedi.

 

Non appena Harf se ne fu andato, Kay corse alla porta e la chiuse. «Tesoro» disse, «perché non chiami qualche scienziato qui a New York e gli dici cosa è successo? Sono sicura che faranno qualcosa, fino a quando... quanto tempo dovremo rimanere qui?»

«Fino a quando la falla non sarà stata riparata» disse Masrin. «Ma non possiamo dirlo a nessuno, e in particolare non possiamo dirlo a nessuno scienziato».

«Perché no?» chiese Kay.

«Senti, la cosa importante, come ti ho detto, è quella di evitare un paradosso. Ciò significa che devo tenere le mani lontane dal passato e dal futuro. Giusto?»

«Se lo dici tu» fece Kay.

«Se chiamiamo una squadra di scienziati, cosa accadrà? Naturalmente si mostreranno scettici. Vorranno vedermi mentre lo faccio. Così, lo farò. Immediatamente, faranno venire qualcun altro dei loro colleghi. Anche questi mi osserveranno mentre scompaio. Intendiamoci, durante tutto questo tempo non c'è stata nessuna prova, qui, che io sia andato nel passato. Tutto quello che sanno è che, se io scendo le scale, scompaio.

«Verranno chiamati dei fotografi, per essere sicuri che non sto ipnotizzando gli scienziati. Poi esigeranno delle prove. Vorranno che riporti con me uno scalpo o qualcuno di quei randelli scolpiti. I giornali s'impadroniranno della notizia. Sarà inevitabile che in qualche punto della mia linea di movimento, io produca un paradosso. E sai cosa accadrà, allora?»

«No, e non lo sai neppure tu».

«Io lo so» ribatté Masrin con fermezza. «Una volta che viene causato il paradosso, l'agente - l'uomo che l'ha causato - io, cioè - scompare. Per sempre. E verrà riportato sui libri come un altro mistero irrisolto. In questo modo il paradosso viene risolto nella maniera più facile... sbarazzandosi dell'elemento paradossale».

«Se pensi di essere in pericolo, allora, naturalmente, non chiameremo nessuno scienziato» disse Kay. «Anche se vorrei capire a cosa vuoi arrivare. Non capisco niente di ciò che hai detto». Andò alla finestra e guardò fuori. Là c'era New York e più oltre, da qualche parte, lo Iowa, dove avrebbero dovuto andare. Diede un'occhiata al proprio orologio. Avevano già perso il treno.

«Telefona all'università» la sollecitò Masrin. «Digli che ritarderò di qualche giorno».

«Saranno pochi giorni?» chiese Kay. «Come farai mai a uscirne fuori?»

«Oh, il buco del tempo non è permanente» dichiarò Masrin, fiducioso. «Si rimarginerà... se io non continuerò a ficcarmici dentro».

«Ma noi possiamo restare qui soltanto fino a mezzanotte. Cosa accadrà dopo?»

«Non lo so» disse Masrin. «Possiamo soltanto sperare che per allora sia stato riparato».

 

A: CENTRO

Ufficio 41

ALL'ATTENZIONE DI: Assistente Controllore Miglese

DA: Appaltatore Carienomen

OGGETTO: Metagalassia MORSTT

 

Caro signore,

qui acclusa, è la mia offerta circa un progetto di lavoro sulla nuova metagalassia nella regione codificata come MORSTT. Se ha avuto modo di ascoltare qualunque recente discussione nei circoli artistici, credo che avrà constatato come il mio impiego di atomi instabili nella metagalassia ATTALA sia stato proclamato «il primo grande progresso nell'ingegneria creativa dell'invenzione del flusso temporale variabile». Veda le recensioni allegate.

La mia arte ha suscitato molti commenti favorevoli.

La maggior parte delle incongruenze - incongruenze naturali, lasci che glielo ricordi - nella metagalassia ATTALA sono state corrette. Sto ancora lavorando con l'uomo incastrato nella prima falla. Sembra molto disposto alla collaborazione. Per lo meno quanto lo può essere con tutte le varie influenze intorno a lui.

Fino ad oggi, ho saldato i bordi della falla, e ho lasciato che s'indurissero. Spero che l'individuo rimanga immobile, giacché non mi piace dover estrarre né qualcuno né qualcosa. Dopotutto ogni persona, ogni pianeta, ogni sistema stellare, non importa quanto minuscolo, giocano un ruolo integrante nel mio progetto metagalattico.

Artisticamente, comunque.

La sua ispezione sarà di nuovo la benvenuta. Vorrei pregarla di prestare la sua attenzione alle configurazioni galattiche intorno al centro metagalattico. Sono un autentico sogno di bellezza che vorrà sempre portare con sé.

Per favore, prenda in considerazione questo fatto nel valutare il progetto per la metagalassia MORSTT, alla luce dei miei passati successi.

Aspetto ancora il pagamento per la metagalassia ATTALA.

Rispettosamente,

Carienomen

Allegati:

1 offerta per progetto metagalassia MORSTT

3 recensioni critiche sulla metagalassia ATTALA

 

«Sono le undici e quarantacinque, tesoro» disse Kay, innervosita. «Pensi che potremo andare, adesso?»

«Aspettiamo ancora qualche minuto» rispose Masrin. Poteva sentire il rumore dei passi di Harf, che si aggirava sul pianerottolo, aspettando con impazienza i rintocchi di mezzanotte.

Masrin osservò i secondi che passavano ticchettando sul suo orologio. A mezzanotte meno cinque, decise che tanto valeva la pena di scoprirlo. Se a quest'ora il foro non era stato sistemato, altri cinque minuti non avrebbero fatto differenza.

Appoggiò la valigia sul comò, e spostò una sedia mettendola accanto ad esso.

«Cosa stai facendo?» chiese Kay.

«Non me la sento di provare quelle scale di notte» spiegò Masrin. «È già abbastanza brutto aver a che fare con quei prepellirosse alla luce del giorno. Tenterò invece di andare su». Sua moglie gli rivolse un'occhiata di sottecchi del tipo adesso-so-che-stai-crollando.

«Non sono le scale a farlo» aggiunse ancora Masrin. «È il fatto di andare su o giù. Sembra che la distanza critica sia all'incirca di un metro e mezzo. Questo andrà altrettanto bene».

Kay rimase lì, nervosa, serrando e disserrando entrambe le mani, mentre Masrin saliva sulla sedia e metteva un piede sul comò. Poi ci mise l'altro, e si alzò in piedi.

«Credo che vada bene» disse, barcollando un po'. «Adesso proverò un po' più in alto».

Salì sulla valigia.

E scomparve.

 

Era giorno e si trovava in una città. Ma la città non sembrava New York. Era bella da mozzare il fiato, talmente bella che Masrin non osò neppure respirare, per timore di turbare la sua fragile bellezza.

Era un luogo costellato di torri e di altri edifici esili, delicati. E c'era gente... Ma che gente! pensò Masrin, esalando un sospiro.

Quella gente aveva la pelle azzurra, e la luce era verde, e scendeva da un sole verde.

Masrin respirò una boccata d'aria, e si senti strangolare. Cacciò un paio di rantoli e cominciò a perdere l'equilibrio. Non c'era aria in quel posto! Per lo meno, aria che lui potesse respirare.

Cercò a tentoni un gradino dietro di sé e ruzzolò giù... Per atterrare, soffocando e contorcendosi, sul pavimento della sua stanza.

 

Dopo qualche istante riuscì a respirare di nuovo. Sentì Harf che picchiava alla porta. Masrin si alzò in piedi barcollando e tentò di pensare a qualcosa. Conosceva Harf; a quest'ora quell'uomo doveva essersi convinto che Masrin fosse un capo della Mafia. Avrebbe chiamato un poliziotto, se non se ne fossero andati. E ciò avrebbe dato come risultato finale un...

«Ascolta» disse a Kay. «Ho un'altra idea». La gola gli bruciava a causa dell'atmosfera del futuro. Comunque, si disse, non aveva nessun motivo di esserne sorpreso. Aveva fatto un bel salto in avanti nel tempo. La composizione dell'atmosfera terrestre doveva essere cambiata, gradualmente, e gli abitanti vi si erano adattati, ma per lui era veleno.

«Adesso ci sono due possibilità» aggiunse, rivolto a Kay. «Primo, che sotto lo strato preistorico ci sia un altro strato, precedente ad esso. Due, che lo strato preistorico sia soltanto una discontinuità temporanea. Che sotto ad esso sia di nuovo presente New York. Mi segui?»

«No».

«Tenterò di scendere sotto lo strato preistorico. Potrebbe condurmi giù al pianterreno. Di certo, peggio non può essere». Kay rifletté su questo tipo di logica, che lo avrebbe fatto addentrare di migliaia di anni nel passato per riuscire a percorrere tre o quattro metri, ma non disse niente.

Masrin aprì la porta e uscì fuori sulle scale, seguito da Kay. «Augurami buona fortuna» disse.

«Fortuna un corno!» esclamò il signor Harf, sul pianerottolo. «Andatevene fuori di qui e basta».

Masrin si lanciò giù per le scale.

 

Era ancora mattina nella New York della preistoria, e i selvaggi lo stavano ancora aspettando. Masrin calcolò che là doveva essere passata soltanto mezz'ora. Non ebbe il tempo di chiedersene il perché.

Li aveva colti di sorpresa, ed era a una ventina di metri da loro, prima che lo vedessero. L'inseguirono, e Masrin cercò una depressione nel terreno. Doveva scendere di un metro e mezzo per uscire di lì.

Trovò un piccolo gradino di roccia, e saltò giù.

Era nell'acqua: non semplicemente in superficie, ma sotto. La pressione era tremenda, e Masrin non riusciva a vedere il bagliore del sole sopra di sé.

Doveva essere penetrato in un tempo in cui quella zona si trovava sotto l'Atlantico.

Scalciò furiosamente più volte, con i timpani che gli scoppiavano. Cominciò a risalire verso la superficie, e...

Era di nuovo sulla pianura, grondante acqua.

Questa volta i selvaggi ne avevano avuto abbastanza. Lo fissarono, mentre si materializzava davanti a loro, cacciarono un urlo di orrore, e scapparono a gambe levate.

Quello spirito delle acque era troppo forte per loro.

Stancamente, Masrin tornò ad avviarsi su per la collina, e si ritrovò nella casa di arenaria.

Kay lo fissava, e Harf se ne stava lì a bocca spalancata. Masrin ebbe un debole sorriso.

«Signor Harf» disse. «Vuol venire nella mia stanza? C'è qualcosa che voglio dirle».

 

A: CENTRO

Ufficio 41

ALL'ATTENZIONE DI: Assistente Controllore Miglese

DA: Appaltatore Carienomen

OGGETTO: Metagalassia MORSTT

 

Mio caro signore,

non riesco a capire la sua risposta alla mia offerta per il lavoro di costruzione della metagalassia MORSTT. Inoltre, non credo che le oscenità abbiano posto in una lettera di affari.

Se si fosse dato la pena di ispezionare il mio ultimo lavoro in ATTALA, avrebbe constatato che è, nel suo insieme, un lavoro splendido, che contribuirà non poco a ricacciare indietro il caos primigenio.

L'unico particolare che rimane da risolvere è quello dell'uomo incastrato. Temo che dovrò eseguire un'estrazione.

La falla si stava indurendo per benino quando lui ci è finito dentro di nuovo, alla cieca, lacerandola peggio di prima. Nessun paradosso, per ora, ma ne vedo uno in arrivo.

A meno che lui non riesca a controllare l'ambiente immediatamente circostante, e subito, mi vedrò costretto ad attuare le misure necessarie. Il paradosso non è ammesso.

Considero mio preciso dovere chiederle di riesaminare il mio progetto per la metagalassia MORSTT.

E confido che vorrà scusarmi se oso di nuovo portare alla sua attenzione il piccolo, sgradevole particolare, che non sono stato ancora pagato.

 

Rispettosamente,

Carienomen

 

«Così è questa la storia, signor Harf» concluse Masrin, un'ora più tardi. «So quanto può sembrare bizzarra, ma lei stesso mi ha visto scomparire».

«Questo è vero» disse Harf. Masrin andò nel bagno ad appendere gli indumenti bagnati.

«Sì» aggiunse Harf. «Se è per questo, credo proprio che lei sia scomparso».

«L'ho fatto di certo».

«E non vuole che gli scienziati sappiano del suo patto col diavolo?» chiese Harf, maliziosamente.

«No! Le ho spiegato la faccenda del paradosso, e...»

«Vediamo» fece Harf. Si asciugò energicamente il naso. «Quei randelli scolpiti che mi ha detto che avevano. Uno di quelli non sarebbe prezioso per un museo? Lei ha detto che non è mai esistito niente di simile».

«Cosa?» chiese Masrin uscendo dal bagno. «Ascolti, non posso toccare niente di quella roba. Succederebbe un...»

«Naturalmente» proseguì Harf, «potrei chiamare qualche giornalista, invece. E qualche scienziato. Probabilmente potrei farmi un bel gruzzolo grazie a questa adorazione del diavolo...»

«Non se lo farebbe affatto» ribatté Kay, ricordando soltanto che suo marito aveva detto che sarebbe successo qualcosa di brutto.

«Sia ragionevole» insisté Harf. «Voglio soltanto uno o due di quei randelli, e nient'altro. Non causerà nessun problema. Basterà che chieda al suo diavolo...»

«Non c'era nessun diavolo» sbottò Masrin. «Lei non ha nessuna idea di quale parte possa aver giocato nella storia uno di quei randelli. Il randello che io dovessi prendere potrebbe aver ucciso l'uomo che ha unito quel popolo, e i pellirosse nordamericani potrebbero allora aver incontrato gli europei come una singola nazione. Rifletta su come questo potrebbe cambiare...»

«Non mi dia a bere quella roba» l'interruppe Harf. «Ha intenzione di procurarmi un randello o no?»

«Gliel'ho già spiegato» disse Masrin, scoraggiato.

«E non stia più a parlarmi di questa storia del paradosso. In ogni caso, non la capisco. Comunque, farò a metà con lei, di quello che riuscirò a farmi pagare per il randello».

«No».

«D'accordo. Ci vediamo». Harf accennò ad andare verso la porta.

«Aspetti».

«Sì». Adesso, la bocca di Harf sottile come un filo di ragnatela stava sorridendo.

Masrin passò in rassegna la sua scelta di guai. Se avesse portato indietro con sé un randello, c'era una buona probabilità che in tal modo avrebbe dato inizio a un paradosso, cancellando tutto quello che il randello aveva fatto nel passato. Ma se non l'avesse fatto, Harf avrebbe fatto venire i giornalisti e gli scienziati. Potevano accertare se ciò che Harf diceva era vero, semplicemente agguantandolo e trascinandolo giù per le scale: qualcosa che la polizia avrebbe fatto comunque. Lui sarebbe scomparso. E poi...

Con tutta questa gente coinvolta nella faccenda, il paradosso sarebbe stato inevitabile. Ed era molto probabile che l'intera Terra sarebbe stata cancellata. Anche se non avrebbe saputo spiegare perché, Masrin lo sapeva con certezza.

Era perduto in entrambi i casi, ma andare a prendere il randello gli pareva l'alternativa più semplice.

«Vado a prenderlo» disse. Raggiunse la scala, seguito da Kay e Harf. Kay gli afferrò la mano.

«Non farlo» lo supplicò.

«Non c'è altro che io possa fare» lui rispose. Pensò per un momento di uccidere Harf. Ma questo avrebbe dato come unico risultato la sedia elettrica per lui. Naturalmente, avrebbe potuto uccidere Harf, portare il suo corpo nel passato e seppellirlo.

Ma il cadavere di un uomo del ventesimo secolo nella preistoria sarebbe stato comunque un paradosso. Supponiamo che l'avessero ritrovato durante degli scavi?

Inoltre... lui non se la sentiva di uccidere un uomo.